In memoria del floppy

È di questi giorni l’annuncio che la Sony non produrrà più floppy disk a partire dal 2011. Che il supporto floppy fosse destinato all’oblio non è proprio una notizia sorprendente, tuttavia credo che chi, come me, ha iniziato a trafficare con i computer durante gli anni ’90 non possa non accogliere l’annuncio con una certa tristezza, come se improvvisamente ci si rendesse conto che un piccolo pezzo della propria anima se n’è andato per sempre.

Lasciatemi cogliere l’occasione per indugiare in un piccolo amarcord. Attorno al 1990 mio fratello ebbe la perniciosa idea di far entrare in casa un esemplare di quelli che allora si chiamavano Personal Computer, precisamente un IBM PS/2 modello 30 dotato di un rutilante processore 8086, 640KB di memoria (che, come insegnava Bill Gates, erano più che sufficienti) e disco fisso da… 0 MB. Sì, esatto, niente disco fisso: c’erano solo due drive per floppy da 3,5″, e neanche ad alta densità: i cari vecchi floppini blu da 720KB l’uno. Sembra incredibile, ma su un catorcio del genere ci girava pure Windows (la versione 2.0) e la gran parte dei giochi dell’epoca (anche se la presenza di una scheda grafica MCGA in luogo della meno potente, ma più supportata EGA non aiutava).

Ovviamente in casa i floppy abbondavano, essendo sostanzialmente l’unica forma di storage disponibile per quella macchina. Uno di essi era particolarmente caro al me stesso (11/12enne) dell’epoca: si trattava infatti del disco dove erano memorizzati i miei dati (in realtà ben poca cosa, principalmente piccoli programmi in BASIC che copiavo dai libri di informatica di mio fratello e magari ogni tanto modificavo), nonché, dietro precisa direttiva di mio fratello, l’unico disco su cui avevo permesso di scrittura (non che il DOS supportasse i permessi di accesso ai file: i metodi dissuasivi erano di altro tipo, diciamo più fisici).

Un giorno (anzi, se ricordo bene era una serata) accadde il dramma. Come talvolta avveniva, mio fratello era alla tastiera a programmare e io al suo fianco ad assistere. Nel contempo, per ottimizzare le attività, stavamo anche formattando alcuni floppy vergini grazie a un mitico programma TSR dell’epoca che si chiamava (se non erro) con-format; io ero l’addetto al cambio dischi. A un certo punto della sessione di programmazione viene fuori un programma particolarmente carino (di cui non ricordo i dettagli) e io dico a mio fratello: “che bello, dopo ne salvi una copia sul mio disco?” “Ma certo!” Destino vuole che in quel momento finisca la formattazione in corso: io, tutto contento, inserisco il mio floppy nel drive e sto per esclamare “Ok, salva!” quando (orrore!) mio fratello, credendo che avessi appena inserito un nuovo disco vergine, impartisce il distruttivo comando di iniziare una nuova formattazione! Appena realizzo ciò che era successo estraggo il disco dal drive (incurante della lucina accesa) sperando di aver agito in tempo, ma ahimè, un veloce controllo dà il risultato temuto: il disco è illeggibile.

Pianti, grida e disperazione. Nostra madre, che era accorsa preoccupata, fu messa al corrente dei fatti ma liquidò il tutto con un “Quante storie, non è mica morto nessuno!”. Evidentemente non aveva realizzato la gravità della situazione: mi trovavo infatti per la prima volta di fronte a un terribile fenomeno, che col tempo ho imparato a conoscere e (nei limiti del possibile) a esorcizzare: la perdita di dati. Perdere dei dati è qualcosa di completamente diverso dal perdere un oggetto nel mondo reale: in quest’ultimo caso la frustrazione è comunque mitigata dalla speranza (per quanto vaga) di ritrovare l’oggetto smarrito, che comunque esiste ancora fisicamente (anche se non si sa dove sia). Ma con i dati non c’è neanche la più minima speranza: una volta che la particolare configurazione dei magnetini che compongono il disco è stata alterata, non c’è verso di recuperarla: il vecchio contenuto è perso per sempre.

Oppure no? Torniamo a quella serata di molti (troppi) anni fa. Constatato il danno, mio fratello non si perse d’animo: essendo un fiero possessore di questo libro, sapeva che se (almeno) una copia della FAT e la directory radice erano sopravvissute al tentativo di formattazione, sarebbe ancora stato possibile tirare fuori qualcosa da quel disco. Fu tosto progettato un ardito piano: usando CopyWrite, un programma di copia che (assieme al più noto Copy II PC) faceva parte dell’arsenale di ogni pirata dell’epoca, il boot sector (e solo quello) di un disco pulito sarebbe stato copiato sul disco offeso, sperando che ciò bastasse a renderlo nuovamente accessibile. L’operazione fu un tantino drastica (non avendo CopyWrite un’opzione per copiare singoli settori, ed essendo sostanzialmente ininterrompibile, fummo costretti a spegnere il PC appena copiato il boot sector!) ma, sorprendentemente, diede i risultati voluti e gran parte del contenuto del disco venne recuperato!

E con questo lieto fine si conclude il viaggio indietro nel tempo, non prima però di aver ribadito la morale della storia: se ci sono dei dati a cui tenete particolarmente, fatene almeno due copie.

3 commenti

  1. aspirantelogico

    Alberto, io non ho capito nulla della parte informatica, anche perche’ il mio primo computer l’ho comprato per scrivere la tesina del terzo anno all’universita’. Ma sono tanto contentento che quei dati esistano ancora.

  2. Riccardo

    ahahah! Bellissima questa storiella!! 😀 mi è piaciuta! Vita vissuta! La “perdita di dati” è veramente un evento luttuoso…

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