(Indice delle puntate precedenti: parte 0, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5, parte 6)
Louis Victor Pierre Raymond de Broglie nasce a Dieppe, una cittadina portuale dell’alta Normandia, il 15 agosto 1892. Suo padre è Victor, quinto duca di Broglie, discendente di una antica famiglia nobiliare (originaria di Chieri, in Piemonte) che aveva già dato alla storia della Francia varie figure tra cui marescialli, politici e diplomatici. Il primo a rompere la tradizione e dedicarsi alla scienza è però il fratello maggiore di Louis, di nome Maurice. Di 17 anni più vecchio, Maurice avrà un’influenza determinante sul fratellino, specialmente a partire dal 1906, quando papà Victor muore e Maurice eredita il titolo di duca e la posizione di capofamiglia.
Lo stesso Maurice sembrava in realtà destinato a una carriera nella marina militare francese fino al 1904, anno in cui decide di abbandonare quel tipo di vita (con grande disappunto della famiglia) per abbracciare gli studi di fisica. Diventa così un allievo di Paul Langevin al Collège de France, dove ottiene il dottorato nel 1908 grazie a una tesi in cui studia il moto di corpuscoli carichi di varie dimensioni, dagli ioni atomici alle particelle che compongono il fumo di tabacco (!). Conclusi gli studi formali, e non avendo evidentemente problemi di carattere economico, il de Broglie maggiore pensa bene di continuare la sua carriera di fisico sperimentale attrezzando a laboratorio la sua casa di Parigi sita tra rue Lord Byron e rue Châteaubriand, a due passi dall’Étoile.
Nel frattempo anche Louis si è trasferito a Parigi dove frequenta il prestigioso Lycée Janson de Sailly, diplomandosi nel 1909. Le sue idee sono però molto diverse da quelle del fratello, almeno per il momento: infatti dopo il diploma entra sì alla Sorbona, ma nella facoltà di Lettere, dove studia storia medioevale con l’idea di perseguire, dopo la laurea, una tranquilla carriera nella diplomazia. Nel giro di qualche anno, però, questo piano verrà totalmente sconvolto; e tutto per colpa (strano a dirsi) di un tedesco.
All’inizio del 1911, infatti, il chimico-fisico Walther Nernst, a Göttingen, ha un’idea meravigliosa: organizzare un convegno internazionale di fisica centrato sui problemi della nascente teoria dei quanti. Ottenuto il via libera dal «boss» della fisica tedesca Max Planck, Nernst ha la fortuna di entrare in contatto con il chimico e industriale belga Ernest Solvay, allora 73enne (e ricco sfondato), che si offre come sponsor dell’evento. Così, il 30 ottobre 1911 si apre a Bruxelles il Conseil Solvay, con tema La Théorie du Rayonnement et les Quanta. Sotto l’inappuntabile regia dell’olandese Hendrik Lorentz, i 23 fisici più importanti dell’epoca (tra cui un giovane Einstein) si riuniscono per discutere gli ultimi sviluppi nella loro scienza.
Il congresso è un successo strepitoso, e si decide quindi di trasformare l’esperienza in un appuntamento periodico: nascono così quelle conferenze Solvay che avranno (come vedremo) un ruolo fondamentale nella definitiva affermazione della meccanica quantistica. Curatore dei proceedings di questo primo episodio è proprio Maurice de Broglie che, una volta tornato a Parigi, finisce con il coinvolgere anche il fratello minore nel lavoro editoriale. È proprio qui che arriva la svolta: Louis legge infatti con grande interesse i resconti delle relazioni tenute dagli scienziati, restando particolarmente affascinato da quei misteriosi «quanti» che Planck aveva introdotto appena dieci anni prima. Matura così la decisione di gettare alle ortiche la carriera diplomatica e seguire le orme del fratello maggiore.
Dopo altri due anni di studio alla Sorbona Louis ottiene nel 1913 la Licence ès Sciences (una sorta di laurea di primo livello) in fisica e matematica. Subito dopo viene chiamato nell’esercito francese dove, anche grazie a una raccomandazione del fratello, viene assegnato al corpo degli ingegneri. Si tratta di un vero colpo di fortuna, perché meno di un anno dopo scoppia la prima guerra mondiale e Louis riesce così ad evitare le terribili trincee del fronte occidentale, nelle quali i francesi perderanno circa 4 milioni di uomini. Diventa invece uno dei telegrafisti che operano alla stazione radio sulla torre Eiffel, dove rimane in servizio fino all’agosto del 1919.
Terminata l’esperienza nell’esercito Louis è finalmente libero di riprendere gli studi per conseguire il dottorato in fisica, anch’egli sotto la guida di Langevin, che del resto è uno dei pochi fisici francesi a tenersi aggiornato sugli sviluppi teorici più recenti. Seguendo i suoi corsi al Collège de France, de Broglie acquisisce in breve tempo solide basi in relatività e teoria dei quanti. Continua comunque a bazzicare regolarmente la casa-laboratorio del fratello Maurice, che nel frattempo è diventato uno dei massimi esperti nello studio dei raggi X, uno degli argomenti caldi dell’epoca. E qui occorre fare una piccola digressione.
Com’è noto, i raggi X vengono scoperti quasi per caso dal tedesco Wilhelm Röntgen alla fine del 1895 e catalizzano immediatamente l’attenzione dei fisici di tutto il mondo; tant’è vero che, appena sei anni dopo la scoperta, a Röntgen viene assegnato niente meno che il primissimo premio Nobel per la fisica della storia (1901). Tale interesse è dovuto al fatto che nessuno ha la più pallida idea di cosa diavolo siano questi raggi, come del resto testimonia persino il nome con cui Röntgen li aveva battezzati. In particolare ci si chiede se essi siano prodotti da una “vibrazione dell’etere” (come si diceva all’epoca), in maniera analoga alla luce, o se viceversa abbiano natura corpuscolare. Alcune loro proprietà, come la capacità di ionizzare i gas, sembravano suggerire la seconda possibilità. Nel 1912, però, l’osservazione di fenomeni di diffrazione a opera di un team guidato da Max von Laue, a Monaco, sembrò far pendere la bilancia nettamente a favore dell’ipotesi ondulatoria.
Ciò nonostante ancora all’inizio degli anni ’20 alcuni, tra cui l’influente fisico inglese W. H. Bragg (premio Nobel 1915 assieme a suo figlio), continuavano a ritenere che il comportamento dei raggi X presentasse anche aspetti corpuscolari. Tra questi scettici c’è anche Maurice de Broglie, ed è proprio durante le lunghe discussioni con suo fratello che in Louis comincia a farsi strada l’idea che per descrivere i fenomeni atomici sia necessario combinare concetti ondulatori e corpuscolari.
In questa linea di pensiero de Broglie trova un alleato formidabile nel già citato Albert Einstein, che nel 1905 aveva avanzato la coraggiosa ipotesi secondo la quale l’energia di un’onda elettromagnetica era da considerarsi come localizzata in «quanti di luce» (Lichtquanten) indipendenti, il che permetteva ad esempio di spiegare le peculiari proprietà esibite dall’effetto fotoelettrico. In due articoli successivi (1909, 1916) Einstein era poi ritornato sul tema dimostrando, tra le altre cose, come la legge di Planck sullo spettro del corpo nero implichi la necessità di attribuire a un quanto di luce di lunghezza d’onda \(\lambda\) un impulso pari a \(h/\lambda\), il che rende di fatto questi Lichtquanten in tutto e per tutto analoghi a delle particelle. De Broglie studia con attenzione questi lavori e le sue prime due pubblicazioni teoriche, che appaiono durante il 1922, vertono proprio su questo argomento.
Nel frattempo accade un curioso incidente che vale la pena di raccontare. Nell’autunno del 1921 si svolge, sempre a Bruxelles, la terza conferenza Solvay (la prima dopo la fine della guerra) con tema Atomes et électrons. De Broglie vi vorrebbe assistere, nonostante sia ancora un semplice studente di dottorato: c’era infatti l’usanza di autorizzare l’accesso di pochi selezionati estranei ai lavori del congresso. Nonostante la presenza del fratello tra gli invitati, però, il permesso non viene accordato. Molto deluso, Louis giurerà a se stesso che nel futuro sarebbe riuscito a partecipare a una conferenza Solvay, non in qualità di estraneo ma invitato per via delle sue scoperte! (Non crediamo di rovinare la sorpresa a nessuno se anticipiamo che ciò accadrà davvero, nella conferenza del 1927.)
Intanto l’idea dei quanti di luce prende sempre più piede, dapprima (dicembre 1921) grazie all’attribuzione del premio Nobel ad Einstein per i servizi resi alla fisica teorica e specialmente per la sua scoperta della legge dell’effetto fotoelettrico, e quindi (maggio 1923) per via della comparsa su Physical Review di un articolo firmato da Arthur Compton, un fisico sperimentale americano (non molto conosciuto nel vecchio continente) che opera alla Washington University di Saint Louis, in cui
Si suggerisce l’ipotesi che quando un quanto associato a un raggio X è soggetto a diffusione, esso spenda interamente la sua energia e il suo impulso su un particolare elettrone. Questo elettrone a sua volta diffonde il raggio in una direzione definita.
È la scoperta di quello che ancora oggi si chiama l’effetto Compton. Le conclusioni sono chiare:
Questa notevole concordanza tra esperimento e teoria indica chiaramente che la diffusione è un fenomeno quantistico […] e che un quanto di radiazione porta con sé impulso oltre che energia.
I quanti di luce entrano così definitivamente a far parte della fisica moderna (il termine “fotone” dovrà aspettare ancora qualche anno la fantasia del chimico americano Gilbert N. Lewis), e non è un caso che Maurice de Broglie a Parigi sia uno dei primi fisici in assoluto a replicare l’esperienza di Compton.
Questi sviluppi fanno avvertire in maniera ancora più acuta la mancanza di una teoria in grado di conciliare le due anime, ondulatoria e corpuscolare, della luce. Nell’estate del 1923 Louis de Broglie decide di attaccare il problema partendo da due ipotesi rivoluzionarie: la prima è che i quanti di luce siano dotati di una massa piccolissima ma non nulla (dell’ordine dei \(10^{-50}\) grammi), la seconda è che a ogni corpo dotato di massa (e non solo, quindi, ai quanti di luce) sia possibile attribuire un aspetto ondulatorio. Di queste due idee la prima sarà destinata, come suol dirsi, al cestino della storia, ma la seconda si rivelerà un ingrediente fondamentale della nuova meccanica.
De Broglie parte supponendo che a un corpuscolo di massa \(m\) in moto con velocità \(v = \beta c\) sia associato un qualche “fenomeno periodico” che, nel riferimento di quiete del corpo, ha frequenza \(\nu_{0} = mc^{2}/h\) (dove \(mc^{2}\) è l’energia di riposo). Un osservatore stazionario attribuirà però alla particella un’energia pari a \(mc^{2}\gamma\) (dove \(\gamma\) è il fattore di Lorentz), e quindi al fenomeno in questione una frequenza
\(\nu = \nu_{0}\gamma\)
D’altro canto la formula relativistica per l’effetto Doppler trasverso ci dice che l’osservatore stazionario dovrebbe invece misurare una frequenza pari a
\(\nu’ = \nu_{0}/\gamma\)
Per risolvere questa discrepanza de Broglie introduce «une onde fictive associée au mouvement du mobile», con velocità \(c/\beta\) (e dunque maggiore di \(c\), da cui la natura “fittizia” dell’onda) e frequenza \(\nu\) come definita in precedenza. È quindi in grado di dimostrare che se a un certo istante il fenomeno periodico associato alla particella è in fase con l’onda, questo accordo persisterà a tutti i tempi: l’onda “accompagna” l’evoluzione della particella.
Le cose iniziano a farsi interessanti quando si considera il moto di un’elettrone intorno a un nucleo, che si suppone periodico di periodo \(T\). In tal caso è naturale richiedere che l’elettrone, dopo aver fatto un giro completo, si trovi nuovamente in fase con l’onda ad esso associata, il che implica che la quantità
\(\frac{m\gamma v^{2}}{h} T\)
sia un numero intero. Ma questa non è altro che la condizione di quantizzazione di Bohr-Sommerfeld (nella sua versione relativistica), perché nella situazione descritta l’integrale dell’azione lungo un periodo è proprio
\(J = m\gamma v^{2} T\)
che quindi risulta automaticamente essere pari a un multiplo intero della costante di Planck! È facile immaginare l’eccitazione che deve aver provato de Broglie di fronte alla scoperta di questa semplicissima derivazione delle celebri regole di quantizzazione, tant’è vero che essa viene immediatamente presentata in una nota pubblicata nei Comptes rendus de l’Académie des Sciences (sessione del 10 settembre 1923).
In due note successive, pubblicate rispettivamente il 24 settembre e l’8 ottobre, de Broglie approfondisce le conseguenze della sua teoria dimostrando che la velocità \(v\) della particella coincide con la velocità di gruppo dell’onda fittizia, che inizia a chiamare onda di fase. Il moto della particella è determinato imponendo che essa segua, in ogni punto della sua traiettoria, il raggio determinato dalla sua onda di fase (ovvero la direzione perpendicolare alla superficie di uguale fase dell’onda). Ne segue che il percorso della particella può essere calcolato per mezzo del principio variazionale di Fermat:
\(\delta \int \frac{ds}{\lambda} = 0\)
dove \(\lambda\) è la lunghezza d’onda dell’onda di fase. Ricordando che quest’ultima è il rapporto tra la velocità (\(c/\beta\)) e la frequenza (\(mc^{2}\gamma/h\)), l’equazione precedente si scrive, in termini di quantità corpuscolari,
\(\delta \int \frac{m\gamma v}{h} ds = 0\)
che (eliminata la costante \(h\)) è la versione relativistica del principio di Maupertuis. De Broglie può così concludere trionfante:
Il legame fondamentale che unisce i due grandi principi dell’ottica geometrica e della dinamica è messo così in piena luce.
L’emergere di fenomeni tipicamente ondulatori come interferenza e diffrazione è una conseguenza inevitabile degli analoghi fenomeni che sussistono per le onde di fase:
Se la particella attraversa una fenditura le cui dimensioni siano piccole rispetto alla lunghezza d’onda dell’onda di fase, la sua traiettoria sarà in generale curva, come il raggio di un’onda diffratta.
Ne segue la straordinaria predizione per cui ogni tipo di particella, ad esempio un elettrone, può essere diffratta sotto opportune condizioni; «ed è in questa direzione che occorre guardare per una conferma sperimentale delle nostre idee».
Nei mesi successivi de Broglie mette ordine nei risultati ottenuti e scrive una prima esposizione sistematica della sua teoria, che diventerà la sua tesi di dottorato. Intitolata semplicemente Reserche sur la théorie des quanta, la tesi è pronta per l’estate del 1924 ma verrà discussa alla facoltà di Scienze della Sorbona solo il 25 novembre. Il comitato esaminatore comprende, oltre al presidente Jean Perrin, l’insigne matematico Élie Cartan (che oggi ricordiamo come uno dei fondatori della moderna geometria differenziale), il cristallografo Charles Mauguin e ovviamente il supervisore di de Broglie, Langevin. I quattro si trovano in grande imbarazzo: la tesi è formalmente corretta e molto ben scritta, ma queste “onde di fase” sembrano non avere la minima attinenza con la realtà. Dopo una lunga discussione, alla fine il candidato viene promosso e la sua tesi lodata
pour avoir poursuivi avec une maitrise rémarquable un effort qui devait etre tenté pour vaincre les difficultés aux milieux desquelles étaient les physiciens.
ovvero, «per aver perseguito con notevole maestria uno sforzo che doveva essere tentato per superare le difficoltà nelle quali si trovano i fisici». Com’è facile immaginare, Perrin e Mauguin sono i più perplessi dalla totale assenza di riscontri sperimentali. A onor del vero, de Broglie aveva chiesto a un collaboratore di suo fratello esperto di elettronica, tale Alexandre Dauvillier, di provare ad effettuare un esperimento di diffrazione su fasci di elettroni; sfortunatamente Dauvillier in quel periodo è totalmente assorbito dagli esperimenti su una nuova tecnologia che proprio allora stava muovendo i suoi primi passi… la televisione!
(In realtà, l’esperimento che avrebbe fatto così comodo a de Broglie era già stato effettuato: fenomeni di diffrazione elettronica vennero infatti prodotti, ma non riconosciuti, negli anni 1921-1923 da C. J. Davisson e C. H. Kunsman nei laboratori della Western Electric Company di New York. Nel luglio del 1925 il tedesco Walter Elsasser darà una intepretazione corretta di questi esperimenti (dopo aver letto i lavori di de Broglie), ma la conferma definitiva dell’aspetto ondulatorio degli elettroni arriverà solo nel 1927 grazie agli esperimenti di Davisson-Germer e di G. P. Thomson. È curioso notare come quest’ultimo sia proprio il figlio di quel J. J. Thomson che nel 1897 aveva scoperto gli elettroni in quanto particelle).
La tesi di de Broglie viene prodotta in tre copie dattiloscritte, una delle quali rimane a Langevin che la manda all’amico Einstein per un parere. Einstein riceve la tesi nel dicembre del 1924 e ne resta subito impressionato: in una lettera a Langevin dirà che de Broglie «ha sollevato un angolo del grande velo». Einstein però non si limita alle lodi private, ma cita anche favorevolmente il lavoro del francese in un importante articolo sulla teoria quantistica dei gas ideali, che uscirà a stampa nel febbraio del 1925. E sarà proprio la lettura di quell’articolo che ispirerà un non più giovanissimo fisico austriaco ad approfondire lo studio di quella strana idea delle “onde di fase”… (continua)