Dicesi shrinkflation quel processo per cui una ditta (in genere di alimentari) diminuisce leggermente la quantità di prodotto nelle sue confezioni, mantenendone però inalterato il prezzo. Si tratta di una maniera particolarmente subdola per alzare il prezzo di una merce senza che l’acquirente se ne accorga, e quindi molto in voga in tempi di inflazione relativamente alta come quelli che stiamo vivendo in questi ultimi due anni.
Poi però arriva uno come il sottoscritto, che quando cucina ha l’abitudine di pesare tutti gli ingredienti che utilizza (la riproducibilità prima di tutto!), e così facendo si accorge ad esempio che nelle confezioni che dichiarano un “peso netto” di 150 g e un “peso sgocciolato” (e già sulla necessità di questa ulteriore qualifica ci sarebbe da arrabbiarsi…) di 140 g, la quantità di prodotto reale è magari di 130 g, quando non ancora inferiore.
Ma oggi, del tutto inaspettata, una parziale rivincita: sulla scatola di un prodotto che non nominerò, ma che da tempi immemori ha sempre contenuto 10 unità, ho trovato la sospetta dicitura “9 pezzi” (se non altro in questo caso la casa produttrice non si è data la pena di nascondere il misfatto); ma una volta aperta la confezione, sono comunque venute fuori 10 unità del prezioso materiale edibile! Chissà se ci hanno ripensato, o se hanno semplicemente modificato la dicitura sulla scatola prima di reimpostare le procedure di insacchettamento?
(Ah, la wikipedia italiana suggerirebbe come possibili traduzioni di shrinkflation i termini sgrammatura o riporzionamento; ma onestamente il titolo attuale mi piace di più di Errore di sgrammatura, con buona pace dell’accademia della crusca.)