Computer e musei non vanno d’accordo

Penso sia ormai diventato evidente che l’invenzione del calcolatore elettronico (volgamente detto computer) a metà del Novecento debba essere considerata come uno dei punti di svolta nella storia dell’umanità. L’importanza dei computer nella società moderna è indiscutibile, e (a meno di catastrofi) non farà che aumentare nel futuro. In ragione di tale importanza, sembra naturale fare qualcosa per preservare almeno alcuni di questi oggetti, la cui storia tra l’altro è sempre stata caratterizzata da un’evoluzione rapidissima.

Per questo motivo iniziative come quella lanciata dal cofondatore di Microsoft Paul Allen sono particolarmente importanti. Nel 2006, infatti, Allen ebbe l’idea di mettere a disposizione del pubblico la sua collezione di computer storici (e ancora funzionanti), dapprima tramite accesso remoto (via telnet) e poi, a partire dal 2012, anche di persona, con l’apertura del Living Computer Museum (“Museo dei computer viventi”; già il nome è tutto un programma) a Seattle, la sua città e — non per caso — una delle capitali mondiali dell’informatica.

Il museo, che si è poi ingrandito nel tempo grazie a varie donazioni successive, era l’unico posto al mondo in cui si potevano osservare e (ancora più importante) operare esemplari originali e perfettamente funzionanti di alcuni tra gli elaboratori che hanno fatto la storia dell’informatica, tra cui il PDP-10 della DEC (primo computer usato da Allen e Gates), vari mainframe della linea System/360 della IBM, il mitico Xerox Alto, i primi microcomputer della Apple (l’Apple II su tutti) e della IBM (tra cui il primo e unico Personal Computer), e molti altri ancora.

Purtroppo i verbi coniugati al passato sono d’obbligo: nel frattempo infatti Allen è morto (nell’ottobre del 2018) e il museo (le cui spese di gestione non erano probabilmente coperte nemmeno lontanamente dagli incassi) ha chiuso i battenti nel febbraio del 2020, con la “scusa” della pandemia da COVID-19, e non ha mai più riaperto. È notizia di questi giorni che la chiusura è a tutti gli effetti permanente, e che parte del materiale esposto (almeno 150 pezzi) sarà messo all’asta alla celebre casa d’aste Christie’s.

Al di là del fatto che, come qualcuno ha giustamente osservato, non è esattamente elegantissimo vendere all’asta del materiale che è stato donato a un museo con l’idea che rimanesse in quel museo (anche se è stato annunciato che i proventi andranno in beneficenza), la cosa veramente sconfortante è il fallimento dell’idea stessa. Se nemmeno uno degli uomini più ricchi del mondo è in grado di costruire un’istituzione che permetta di continuare a operare questi oggetti che hanno avuto un ruolo così importante nell’evoluzione della tecnica umana, che speranze possiamo avere sul fatto che qualcun altro ci riesca?

Aggiornamento (27/06): discussione dell’annuncio su Hacker News. Secondo Kragen Sitaker, il PDP-10 che era ospitato nel LCM era l’ultimo esemplare ancora funzionante al mondo. In quanto Emacsiano di lunga data, mi scende la lacrimuccia.

Aggiornamento (19/08): Jason Scott fornisce altre informazioni interessanti su tutta la vicenda.