(Indice delle puntate precedenti: parte 0, parte 1, parte 2, parte 3, parte 4, parte 5, parte 6, parte 7)
Erwin Rudolf Joseph Alexander Schrödinger nasce il 12 agosto 1887 a Vienna. Suo padre è il proprietario di una piccola fabbrica di linoleum, ma è anche un uomo di grande cultura in molti campi tra cui la chimica e la botanica, mentre la madre è la figlia di un professore inglese di chimica della Technische Hochschule (politecnico) di Vienna. Con queste premesse, non c’è da meravigliarsi del fatto che il giovane Erwin riceva fin dal principio un’educazione con tutti i crismi, venendo seguito da un tutore privato fino ai 10 anni per poi entrare (1898) nell’Akademisches Gymnasium, la scuola secondaria più prestigiosa di Vienna, che gli garantirà un solido curriculum di studi sia umanistici che scientifici. Qui si mette già in luce per le sue capacità, come racconterà in seguito un compagno di classe:
Specialmente in fisica e in matematica, Schrödinger aveva un dono per la comprensione che gli permetteva, senza fare alcun compito, di cogliere ed essere in grado di applicare subito tutto il materiale svolto in classe. Dopo la lezione […] il nostro professore poteva chiamare immediatamente Schrödinger alla lavagna e porgli dei problemi, che lui risolveva con giocosa facilità.
Nonostante questa grande abilità nelle materie scientifiche, Schrödinger manterrà comunque per tutta la vita un vivo interesse per la letteratura e lo studio delle lingue, tanto che in aggiunta alle due lingue “di casa” (tedesco e inglese) diventerà fluente anche in francese e spagnolo, oltre a conoscere il greco antico e il latino.
Dopo essersi diplomato nell’estate del 1906, Schrödinger entra all’università di Vienna con l’idea di proseguire gli studi in fisica e matematica. Tra i suoi professori quelli che esercitano su di lui l’influenza più grande sono Franz Exner, forse in quel momento il fisico più importante dell’impero austro-ungarico (tanto che nel 1908 assumerà il ruolo di cancelliere dell’università di Vienna), e soprattutto Friedrich Hasenöhrl, già allievo del grande Ludwig Boltzmann (quest’ultimo si era suicidato il 5 settembre del 1906, poco prima dell’ingresso all’università di Schrödinger, che quindi non avrà modo di conoscerlo). Hasenhörl, che è appena stato nominato (a soli 32 anni) successore del suo maestro alla cattedra di fisica teorica dell’università di Vienna, si è già costruito una fama di eccellente insegnante e sarà proprio da lui che Schrödinger impererà la meccanica analitica, la fisica dei mezzi continui e soprattutto i metodi risolutivi per quei problemi agli autovalori che, più di 15 anni dopo, saranno alla base dei lavori che rivoluzioneranno la nuova meccanica.
Ma non percorriamo i tempi: nel 1910, conclusi puntualmente gli studi, il ventiduenne Schrödinger si trova alle prese con la tesi di dottorato. Sebbene mostri già uno spiccato interesse per le questioni teoriche, decide di lavorare a un problema di carattere sperimentale suggeritogli dalle ricerche in corso nel laboratorio di Exner sui fenomeni di elettricità atmosferica. Così, il 20 maggio 1910, Schrödinger ottiene il titolo di dottore in fisica grazie a una tesi riguardante «la conduzione di elettricità sulla superficie di un isolante in aria umida», scritta sotto la supervisione di Egon Schweidler.
Dopo un anno di servizio militare come artigliere, Schrödinger ritorna a far parte dell’università nell’ottobre del 1911 ottenendo una posizione da “sostituto assistente” all’istituto di Exner, dove ha modo di collaborare con l’esperto fisico sperimentale Fritz Kohlrausch. In questa prima fase della sua carriera scientifica Schrödinger, oltre a continuare nello studio dell’elettricità atmosferica, ha modo di approfondire la sua conoscenza della fisica della materia occupandosi ad esempio delle proprietà dei materiali dielettrici (sui quali scriverà anche un articolo di review) e, dal 1912 in avanti, del fenomeno della diffrazione dei raggi X, appena scoperto a Monaco da Max von Laue. Su questi argomenti troverà un valido collaboratore nel suo quasi-coetaneo Hans Thirring, anche lui ai suoi primi passi nel mondo della ricerca.
Un altro momento importante arriva nel settembre del 1913, quando si tiene a Vienna la riunione della Gesellschaft Deutscher Naturforscher und Ärzte (“società degli scienziati e fisiatri tedeschi”), la più antica e prestigiosa organizzazione scientifica del Reich, il cui scopo è quello di incentivare lo scambio culturale tra scienziati di diverse discipline. Uno dei protagonisti della riunione è Einstein, che parla del suo tentativo (in quel momento non ancora portato a compimento) di costruire una nuova teoria della gravità. La sua conferenza genera grande interesse da parte di tutti i fisici austriaci, ed è in questa occasione che Schrödinger acquista un interesse per la teoria della relatività che non lo abbandonerà per il resto della sua vita.
Il 9 gennaio 1914 Schrödinger ottiene l’abilitazione ad insegnare nell’università e il semestre successivo tiene subito un corso sui “fenomeni di interferenza di raggi X”. È interessante notare come ancora a questo stadio i suoi interessi siano divisi in parti pressoché uguali tra il lato teorico e quello sperimentale. Poco dopo la fine del semestre scoppia la prima guerra mondiale e Schrodinger viene immediatamente richiamato in servizio (agosto 1914) con il ruolo di ufficiale di artiglieria. Assegnato al fronte italiano, vi rimarrà a tempi alterni fino al 1917 e avrà anche modo di guadagnarsi una menzione d’onore al comando di una batteria di artiglieri durante una delle tante battaglie dell’Isonzo.
Durante la primavera del 1917 Schrödinger viene allontanato dal fronte e spedito ad insegnare un corso di metereologia alla scuola ufficiali di Wiener Neustadt, e ne approfitta per riprendere a pieno regime il lavoro di ricerca (che comunque non aveva mai abbandonato del tutto, continuando a spedire brevi note anche dal fronte su problemi di relatività generale e acustica). È proprio in questo periodo di relativa calma che Schrödinger inizia ad acquisire familiarità con la teoria dei quanti leggendo articoli di Planck, Einstein e altri. Il suo primo lavoro in merito però è, almeno in parte, sperimentale: nell’estate del 1919 formula infatti un’ipotesi secondo cui l’emissione dei quanti di luce nei processi atomici avviene in maniera “orientata”, cioè lungo una direzione ben definita, e procede in prima persona alla verifica di tale ipotesi nel suo laboratorio di Vienna. Gli esperimenti danno però esito negativo: gli effetti di interferenza tra quanti di luce provenienti dalla stessa sorgente permangono anche a grande distanza angolare. Si tratta in realtà dell’ultimo esperimento significativo nella carriera di Schrödinger, i cui interessi da qui in avanti prenderanno definitivamente la strada della teoria.
Questo non è l’unico cambiamento che l’austriaco si trova ad affrontare in quei mesi: a 33 anni suonati decide infatti di sposarsi con la sua fidanzata dell’epoca, Annemarie Bertel (detta Anny), una nativa di Salisburgo trasferitasi a Vienna per lavorare come segretaria. Non volendo procedere al grande passo senza avere uno stipendio fisso, Schrödinger inizia a sondare il terreno per un posto da assistente; la risposta dell’università però è scoraggiante, anche per via delle pessime acque in cui versa l’Austria a seguito della disfatta totale con cui si era conclusa la guerra. Nei primi mesi del 1920 Schrödinger decide allora di abbandonare l’istituto di fisica di Vienna per accettare una posizione come assistente di Max Wien offertagli dall’università di Jena, nella neonata repubblica di Weimar; il che gli consentirà tra l’altro di sposare Anny, il 24 marzo 1920.
Comincia così un periodo che non è esagerato definire da “girovago della fisica”: nel corso dei due anni successivi Schrödinger non passerà mai più di un semestre nella stessa città! Al termine del semestre estivo del 1920, sebbene a Jena fosse già pronta per lui una promozione, decide di trasferirsi alla Technische Hochschule di Stoccarda come professore straordinario. Anche la capitale della Svevia, però, riesce a trattenerlo solo per un semestre: nella primavera del 1921 accetta infatti un posto da professore ordinario offertogli a Breslau.
Ma evidentemente era destino che Schrödinger trovasse casa al di fuori dei confini tedeschi: all’inizio del semestre successivo arriva infatti un’offerta dall’università di Zurigo, che viene prontamente accettata. Il 15 ottobre 1921 Schrödinger viene così nominato professore di fisica teorica nella tranquilla città svizzera dove finalmente trova un ambiente a lui congeniale, oltre all’amicizia di colleghi del calibro di Hermann Weyl e Peter Debye. Nel corso dei quattro anni successivi Schrödinger scriverà ben 18 articoli di ricerca (più due di review) sugli argomenti più disparati: relatività, fisica atomica, teoria quantistica dei calori specifici, meccanica statistica dei gas, e persino la teoria dei colori e della loro percezione. Quest’ultimo campo di indagine, che si situa a cavallo tra fisica e neurobiologia, veniva usato da Schrodinger come un “rifugio” nel quale ritirarsi quando qualche altro problema lo teneva bloccato per troppo tempo.
In questa fase la produzione accademica di Schrödinger ha come caratteristica quella di apportare piccoli ma significativi miglioramenti a risultati già ottenuti da altri. Lui stesso descriverà così il suo stile:
Raramente il mio intervento costituisce la prima risposta a un problema; piuttosto è spesso la seconda, ed è stimolata dal desiderio di contraddire o correggere, sebbene in seguito lo sviluppo sistematico della mia risposta si riveli essere molto più importante della contraddizione originaria, che serve solo a far partire la nuova teoria.
In un certo senso questo stesso meccanismo è alla base degli articoli fondativi della meccanica ondulatoria, che nascono come risposta alle audaci idee di de Broglie che noi ben conosciamo.
Come molti suoi colleghi, Schrödinger viene per la prima volta a conoscenza dei lavori del francese leggendo, nell’estate del 1925, la seconda parte della memoria Quantentheorie des einatomigen idealen Gases (“Teoria quantistica del gas ideale monoatomico”) in cui Einstein, sviluppando un lavoro del fisico indiano Satyendra Bose, introduce quella che oggi è giustamente nota come statistica di Bose-Einstein. Incuriosito da una nota a pié di pagina in cui il buon Albert, en passant, nota che nella tesi di dottorato di de Broglie si trova «una notevole interpretazione geometrica della regola di quantizzazione di Bohr-Sommerfeld», Schrödinger cerca subito di procurarsi una copia della dissertazione, che però arriverà nelle sue mani solo alla fine di ottobre. Il 16 novembre scrive all’amico Alfred Landé:
Negli ultimi giorni mi sono occupato in dettaglio dell’ingegnosa tesi di Louis de Broglie. È straordinariamente stimolante; tuttavia, alcuni punti sono ancora molto difficili da capire. Ho tentato invano di visualizzare l’onda di fase di un elettrone in un’orbita Kepleriana…
Dopo aver assorbito le idee di de Broglie, Schrödinger compie un passo in avanti decisivo. Ammesso che, come sostiene il francese, ad ogni particella si possa associare un’onda, la domanda da farsi diventa: qual è l’equazione differenziale che governa l’evoluzione di queste onde? Purtroppo non sappiamo, e probabilmente non sapremo mai, quale sia stata l’intuizione che ha portato Schrödinger a porre il problema in questi termini. Se diamo retta ai racconti (di molto posteriori) dei suoi colleghi Debye e Bloch, l’idea potrebbe essere venuta da una domanda (forse dello stesso Debye) che Schrödinger aveva ricevuto al termine di un seminario in cui aveva illustrato la teoria di de Broglie ai suoi colleghi di Zurigo.
Comunque siano andate le cose, alla fine di novembre Schrödinger si mette in caccia di una “equazione d’onda” che determini l’ampiezza delle onde di fase di un elettrone in un atomo di idrogeno. Inizialmente, come già aveva fatto de Broglie, Schrödinger imposta i suoi conti nel quadro della relatività speciale, che si sapeva ormai essere la teoria corretta per trattare i fenomeni elettromagnetici, e arriva così a un’uguaglianza del tipo
\(\nabla^{2}\psi + \frac{4\pi^{2}}{h^{2}}\left( \left( h\nu + \frac{e^{2}}{r}\right)^{2} – m^{2}c^{4}\right) \psi = 0\)
che può essere vista come una equazione agli autovalori per la funzione d’onda \(\psi\). (In termini moderni, si tratta della versione stazionaria di quella che poco più tardi prenderà il nome di equazione di Klein-Gordon.) C’è però una brutta sorpresa in arrivo: l’espressione dei livelli energetici per l’atomo di idrogeno che si ottiene risolvendo questa equazione non coincide con la formula (anch’essa relativistica) che Sommerfeld aveva ottenuto 10 anni prima, e che si sapeva essere in ottimo accordo con i dati sperimentali! Deluso da questo primo fallimento, Schrödinger molla lì tutto per qualche settimana e passa la prima metà di dicembre a completare due articoli su altri argomenti. Con la fine del semestre si presenta però l’occasione propizia per riprendere in mano il problema.
Per le vacanze di Natale del 1925 Schrödinger si reca ad Arosa, località montana nel cantone dei Grigioni dove andava regolarmente in vacanza fin dal 1922. Spiace indugiare nel gossip, ma ci tocca segnalare che non è da solo: lo accompagna una gentile signora che non è la moglie Anny ma una sua “amica” di Vienna, la cui identità è a tutt’oggi sconosciuta. La cosa non deve stupire più di tanto: gli Schrödinger erano una coppia decisamente aperta, tant’è vero che in quello stesso periodo Anny aveva una relazione stabile con il già citato Hermann Weyl (senza, peraltro, che ciò pregiudicasse in alcun modo il rapporto di amicizia tra i due colleghi). Lo stesso Weyl, molti anni più tardi, approfitterà di queste curiose circostanze per prendere in giro l’amico, dichiarando che Schrödinger ha scritto il suo capolavoro durante «a late erotic outburst in his life».
Scappatella o meno, è proprio durante le due settimane di vacanza ad Arosa che Schrödinger trova la strada giusta per risolvere il problema dell’equazione d’onda. Lasciando da parte (seppur a malincuore) la relatività, Schrödinger replica il ragionamento che aveva già compiuto un mese prima usando però le espressioni classiche per energia e momento dell’elettrone. L’equazione che ne risulta è
\(\nabla^{2}\psi + \frac{4\pi^{2}}{h^{2}} 2m \left( h\nu + \frac{e^{2}}{r} – mc^{2}\right) \psi = 0\)
Con grande sorpresa dell’austriaco, questa volta il calcolo dei livelli energetici dà lo stesso risultato della formula (non relativistica) di Bohr! Sappiamo che Schrödinger era già in possesso di questa cruciale conferma a Natale, poiché Il 27 dicembre scrive in una lettera a Wilhelm Wien (editor della rivista Annalen der Physik, da non confondersi con quel Max Wien con cui aveva lavorato a Jena):
Al momento sono tormentato [sic] da una nuova teoria atomica […] Credo di poter scrivere un sistema vibrante — costruito in una maniera completamente naturale e senza assunzioni ad hoc — che ha come sue frequenze proprie i termini spettrali dell’atomo di idrogeno. […] Spero di riuscire presto a scrivere qualcosa di un po’ più dettagliato e illuminante su questo argomento. Al momento devo ancora capire la matematica necessaria per gestire pienamente il problema vibrazionale — si tratta di una equazione differenziale lineare simile a quella di Bessel, ma meno nota e che esibisce strane condizioni al contorno; queste sono connesse con l’equazione stessa e non imposte dal di fuori.
Schrödinger passa il resto delle sue vacanze (per la gioia, immaginiamo, della sua compagna…) riempiendo di idee un quaderno di 72 pagine che intitola Eigenwertproblem des Atoms I (“Problema agli autovalori dell’atomo”).
Di ritorno a Zurigo, Schrödinger riesce a superare (con l’aiuto dell’esperto Weyl) le difficoltà matematiche che aveva menzionato nella lettera a Wien ed è così in grado di dedurre con i suoi metodi l’intera struttura dei livelli energetici di un elettrone nell’atomo di idrogeno, sia nella sua componente discreta (livelli di Bohr) che in quella continua (che corrispondono agli stati non legati). Tutto è pronto per annunciare la scoperta della nuova teoria, il che avverrà (come promesso a Wien) con un lavoro sugli Annalen.
L’articolo, che viene ricevuto il 27 gennaio 1926 e uscirà a stampa a metà marzo, porta il titolo programmatico di Quantisierung als Eigenwertproblem («La quantizzazione come problema agli autovalori»), seguito dal minaccioso inciso Erste Mitteilung («Prima comunicazione») che lascia presagire una lunga serie di sequel. Questa prima nota si apre con una deduzione euristica dell’equazione d’onda a partire da un principio variazionale (che verrà successivamente scartata dallo stesso Schrödinger in favore di altri approcci), immediatemente seguita dall’esempio fondamentale dell’atomo di idrogeno svolto in ogni dettaglio. L’ideologia che anima il lavoro emerge chiaramente sin dal primo paragrafo:
In questa comunicazione posso anzitutto mostrare nel caso più semplice dell’atomo di idrogeno (non relativistico e imperturbato) che la consueta prescrizione di quantizzazione si può sostituire con un altro postulato nel quale non si parla più di “numeri interi”. Il carattere discreto compare invece nello stesso modo naturale in cui il numero dei nodi di una corda musicale oscillante è un intero. La nuova interpretazione può essere generalizzata e giunge, credo, assai in profondo nella vera essenza delle prescrizioni quantistiche.
È impossibile non notare l’avversione di Schrödinger per l’idea stessa di quantizzazione “alla Planck”, ottenuta postulando esplicitamente che determinate grandezze fisiche possano assumere solo valori discreti pari a multipli interi di un quanto elementare.
La maggiore difficoltà concettuale che la nuova teoria si trova a dover affrontare è, ovviamente, quello di chiarire il significato della funzione d’onda. Nella sua prima comunicazione Schrödinger rimane piuttosto abbottonato:
È evidentemente assai naturale associare la funzione \(\psi\) a un processo di oscillazione nell’atomo, che gli si adatta in maggior misura della oggi assai dubitata realtà delle traiettorie elettroniche. Avevo originariamente l’intenzione di fondare la nuova forma della prescrizione quantistica in questo modo più intuitivo, ma ho presentato poi la forma matematica neutrale di cui sopra perché essa fa risaltare l’essenziale in modo più chiaro.
Nella seconda comunicazione, spedita agli Annalen meno di un mese più tardi (23 febbraio) e pubblicata il 6 aprile, Schrödinger è più deciso. Anzitutto riprende, come già aveva fatto de Broglie prima di lui, la cosiddetta analogia ottico-meccanica di Hamilton, secondo cui le leggi della meccanica di un punto materiale (principio di Maupertuis) sono formalmente analoghe a quelle dell’ottica geometrica (principio di Fermat) facendo corrispondere alla velocità di fase dell’onda la quantità meccanica \(E/\sqrt{2m(E-U)}\). Tuttavia, nota Schrödinger, questa analogia è strettamente legata al fatto di lavorare nell’approssimazione dell’ottica geometrica, poiché
[…] concetti anche importanti della teoria delle onde come ampiezza, lunghezza d’onda, frequenza — o parlando più in generale la forma d’onda — non compaiono nell’analogia, manca per essi un corrispettivo meccanico; neppure della funzione d’onda stessa si può parlare…
Poco più avanti esplicita l’ipotesi alla base del suo lavoro:
Oggi sapiamo che la nostra meccanica classica fallisce per dimensioni dei camini assai piccole e per curvature dei cammini assai forti. Forse questo fallimento è completamente analogo al fallimento dell’ottica geometrica, cioè dell’ottica per lunghezze d’onda infinitamente piccole, che avviene notoriamente quando gli “schermi” o le “aperture” non sono più grandi rispetto alla lunghezza d’onda reale, finita. Forse la nostra meccanica classica è completamente analoga all’ottica geometrica e come tale è falsa, non è in accordo con la realtà, fallisce quando i raggi di curvatura e le dimensioni del cammino non sono più grandi rispetto ad una certa lunghezza d’onda, che nello spazio delle \(q\) assume significato reale. Allora vale la pena di cercare una “meccanica ondulatoria” — e la via più naturale per questo è certo lo sviluppo nel senso della teoria delle onde dell’idea di Hamilton.
La mecanica ondulatoria, nata appena un mese prima con il lavoro sull’atomo di idrogeno, viene qui ufficialmente battezzata.
Schrödinger prosegue assumendo che la dipendenza della funzione d’onda dal tempo sia di tipo sinusoidale, ovvero che sia possibile una fattorizzazione del tipo
\(\psi(q,t) = \psi(q) \exp (2\pi i (E/h) t)\)
Sostituendo la funzione così ottenuta nell’ordinaria equazione delle onde e usando per la velocità di fase l’espressione \(v = E/\sqrt{2m(E-U)}\) suggerita dall’analogia ottico-meccanica, ottiene
\(\nabla^{2}\psi + \frac{8pi^{2}m}{h^{2}} (E-U)\psi = 0\)
che riconosciamo subito come la versione stazionaria della “sua” equazione. La velocità di gruppo dell’onda risulta essere pari a \(\sqrt{2/m (E-U)}\), ovvero quella che classicamente è la velocità del punto materiale, il che permette di recuperare la meccanica classica come limite di quella ondulatoria:
Questa circostanza si può ora utilizzare per stabilire un legame assai più profondo di prima tra propagazione dell’onda e moto del punto immagine. Si può provare a costruire un gruppo d’onde che in tutte le direzioni abbia dimensioni relativamente piccole. Un tale gruppo d’onde seguirà allora prevedibilmente le stesse leggi del moto del singolo punto immagine del sistema meccanico. Esso potrà fornire per così dire un surrogato (Ersatz) del punto immagine, purché si possa trascurare la sua estensione rispetto alle dimensioni del cammino del sistema.
Schrödinger conclude presentando altre applicazioni della nuova meccanica a sistemi semplici: l’oscillatore armonico (per cui ottiene la medesima espressione dei livelli energetici trovata da Heisenberg sei mesi prima), il rotore rigido e la molecola diatomica.
L’impatto delle scoperte che abbiamo appena descritto sulla comunità internazionale dei fisici in quei primi mesi del 1926 sarà devastante: le due comunicazioni del trentottenne fisico austriaco verranno lette, studiate e analizzate in ogni dettaglio praticamente da chiunque, e le reazioni non tarderanno ad arrivare… ma questo sarà materiale per la prossima puntata. (continua)