Working hours

L’altro giorno, leggendo il blog di Sean Carroll (che vi consiglio), ho scoperto che in una prestigiosa — ma non specificata — università americana ci si aspetta che i graduate student del corso di astronomia (ma immagino che in quello di fisica la situazione non sia molto diversa) passino a lavorare nel loro dipartimento un certo numero minimo di ore alla settimana, chiamiamolo \(x\) (svelerò il suo valore tra un attimo). Siccome lì per lì mi sembrava un numero fuori dal mondo, ho iniziato a fare due conti.

Quando ero studente di dottorato nella cara vecchia Italia, di solito arrivavo in ufficio verso le dieci del mattino e andavo via verso le cinque del pomeriggio. Togliendo un’ora di pausa pranzo, potrei dire che “lavoravo” per sei ore al giorno, cinque giorni alla settimana, per un totale di 30 ore alla settimana. Ok, non ero esattamente uno stakanovista, e in effetti \(x\) è ben maggiore di 30. A mia parziale scusante posso però dire che spesso lavoravo anche fuori dal dipartimento: anzitutto in treno mentre tornavo a casa (la mattina in genere mi esercitavo nel mio hobby preferito, ovvero dormire…), e a volte magari un’oretta la sera. Diciamo che con questi supplementi arriviamo a 38 ore/settimana… no, siamo ancora lontanucci da \(x\).

D’accordo, ma il sabato e la domenica dove li mettiamo? Anche se non andavo in dipartimento capitava spesso di leggere un articolo, o sistemare degli appunti, o provare a rifare quel dannato conto che non voleva saperne di venire. Diciamo che altre sei/sette ore di lavoro, in media, a weekend saltavano fuori. Mettendo tutto assieme arriviamo a 45 ore/settimana… avrò finalmente raggiunto il famoso standard minimo \(x\)?

Ehm, no. Non ci sono neanche vicino.

Tuttavia io ero un teorico, e i teorici, si sa, sono tutti un po’ fannulloni. Gli sperimentali, invece, loro sì che lavorano! E infatti avevo degli amici sperimentali che tutti i santi giorni arrivavano in dipartimento alle nove e andavano via alle sei. Tolta la classica pausa pranzo di un’ora, fa 8 ore al giorno, e spesso per sei giorni alla settimana, sabato compreso. Mettiamoci ancora due ore ritagliate la domenica, e fanno 50 ore/settimana.

Be’, non ci siamo ancora, ma almeno ci siamo avvicinati un po’. Diciamo che il nostro sperimentale indefesso si riduce a pranzare in mezz’ora, e decide di anticipare l’arrivo alle 8 e mezza. Poi, si sa, in laboratorio c’è sempre qualcosa da fare fino all’ultimo, e quindi diciamo che prima delle sette di sera non si riesce mai a uscire. E il sabato, per carità, è un giorno come tutti gli altri, che gli strumenti mica si devono riposare. Con questo arriviamo a lavorare

\(10 \text{ ore}/\text{giorno} \cdot 6 \text{ giorni} = 60 \text{ ore}/\text{settimana}\)

Buone notizie! Siamo arrivati al valore di \(x\) (che, ricordo, è il numero minimo di ore di lavoro che i professori si aspettano da voi), ammesso che… lo studente in questione abbia famiglia! Eh sì, perché se non avete un figlio o quantomeno un partner ad aspettarvi, per quale motivo dovreste mai tornare a casa la sera? Non scherziamo: è molto più salutare rimanere nel vostro bel laboratorio a lavorare, diciamo fino alle dieci e mezza (concedendo un’altra pausa di mezz’ora per la cena), per un totale di 13 ore di lavoro al giorno (sabati compresi). Mettendo dentro anche le solite 2 ore di lavoro la domenica, tanto per non riposarsi troppo, arriviamo così a una comoda routine di

\(80 \text{ ore}/\text{settimana}\)

di lavoro. E finalmente abbiamo raggiunto un valore di \(x\) accettabile, anche se un vero fuoriclasse non si accontenterebbe, e punterebbe piuttosto alle 90 o magari alle 100 ore di lavoro alla settimana.

Probabilmente state pensando che io vi stia prendendo in giro; e invece è tutto tragicamente vero. Ci sono davvero posti in cui è considerato come un dovere morale per uno studente di dottorato il lavorare 13 o 14 ore al giorno o, nelle parole della lettera degli esimi professori, «wanting to work on your research most of your waking hours». E qui ci starebbe bene una riflessione su come, negli Stati Uniti, gli studenti di dottorato si siano trasformati in una sorta di bassa manovalanza, sottopagata e iper-sfruttata, al servizio dei professori che riescono a rastrellare più soldi dalle varie funding agencies; ma è un discorso lungo, complicato e che non ho le competenze per fare. Per fortuna altri l’hanno già fatto.

5 commenti

  1. Nicola Rebagliati

    Una cosa che mi stupisce quando parlano di ore lavorative, e’ che non si tiene conto della fatica che si puo’ fare in mezz’ora o del nulla che si puo’ fare in 10 ore.

    Comunque lavorare 80 ore settimanali significa che si fa un lavoro non faticoso, altrimenti ovviamente non si riuscirebbe a recuperare un bel niente

  2. Doson

    Fallo leggere a Fabio che vuole trovarsi un postdoc all’estero! Come va in Brasile?

    • omega1ck

      Grande Doson! Qui va benone, anche perché nessuno mi chiede di lavorare 80 ore a settimana 🙂
      Ma tu piuttosto, come te la passi?

  3. Doson

    Bene.. Ho cominciato da un mesetto a lavorare a Sophia Antipolis, zona Nizza.. Faccio il programmatore c++ in una grossa azienda che fa software per ambiti turistici.. Per il momento sono contento: imparo cose utili, posto bello, ambiente giovane e stipendio migliore di quello italiano..

    Tu, programmi per il futuro? Ti stabilisci in Brasile o cerchi postdoc altrove? Ciao, stai bene!

    • omega1ck

      In realtà non ho ancora deciso, ovviamente mi piacerebbe stare un po’ più vicino a casa, ma non ho ancora scartato l’idea di cercare un posto permanente qui (dove in questo momento le opportunità non mancano).

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